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Categoria: racconti

Il Fantasma Bianco

La leggenda narra di un fantasma bianco, che vaga alla ricerca di ciò che non è più. Un amore impossibile, alla ricerca di se stesso. Un velo bianco identifica un’anima leggera, ostinata nella ricerca di ogni lacrima che si perde nel vento. È questa la storia che da anni, e per generazioni, si racconterà. La leggenda del fantasma bianco, prima realtà per occhi che non hanno mai creduto, porto di arrivo per coloro che nel sogno hanno continuato a vagare senza meta, rivelazione per te, che adesso stai leggendo la sua storia.

La Regina Della Tela

Sospende l’attesa quel desiderio disteso al sole del nuovo giorno. Sorride ruffiana al piacere del mondo che la sfiora, che la cerca, che non la trova, non la trova mai. Cento colori, venti rubini, foglie d’autunno, riflessi sublimi. Tutto in un quadro, senza cornice, senza confini. Rosso del fuoco, giallo di tela, sfiorano gli occhi, sospira la sera. Verde d’un bosco, azzurro  di speme, si accende l’autunno fra tutte le tele. Corre deciso, scivola sulle spalle… nude di vento, danzano come farfalle. Bronzo prezioso, oro sublime, scivola sull’olio, sul collo e sulle cime. L’argento sposa il  bianco, proteggendolo come fosse stanco. Concerto di colori fra cento capolavori. E’ l’occhio sognatore, che cerca il nuovo albore. La trova… distesa sul’altare fra le mani di vernice, indecisa fra le pieghe del nuovo getto di colore. E’ una donna. E’ un bagliore. E’ un riflesso sulla tela. Si avvicina l’emozione. Si concede al desiderio di parlare con il tempo e, nel tempo,  è un incanto quella bocca, fra le labbra è il paradiso. Un dipinto, solo un sogno, sul calare della sera. E è un incanto, di luce accesa, che nessuna forma cela, perchè lei, o amati occhi, è la regina della tela

Nuvole bianche – Nasce il giorno e il nuovo fiato

Nuvole bianche scaldano l’inverno nuovo e si dimenticano di lei, sul ciglio del sole; abbandonata, libera, come senza vento, senza notte; bianca come il cielo di luce, che occhio umano non può vedere. La musica incalza e corre, corre senza passi. Non ha gambe, nè ali, solo piedi di vento. Si poggia su di te, nuvola sospesa. E’ una musica sublime, senza tempo, nè confine. Si sposa al cuore, raccontando alle ferite, la saccenza di un amante che, testardo e innamorato, soffia forte su quel cuore, presuntuoso di risposte e soluzioni. Il giorno non è pieno e non è caldo, non è freddo e non è vuoto. Mezzogiorno leva il tempo del ricordo. Si ferma ancora il vento, lontano, incontrollato; ricaccia prepotente ogni nome e ogni niente. Si avvicina. Non la guarda, ma sospira e, lento, avanza. L’accarezza promettendole che niente sarà più solo ricordo, ma ha paura, lei, non sente. Non concede il suo respiro. Fugge ancora. Poi ci pensa, circondata da quel mezzo cielo bianco. Mezzogiorno è alto in cielo. Lento brucia ogni dolore. La corteggia. Non si arrende, ma lei fugge sorridendo. Forse è presto, si distende. Io ti salvo, lui risponde. Un profumo di bambagia. Una nuvola che soffia, fra le vesti, prepotente. È l’amore, che sorprende e non si arrende che combatte anche il passato, lo combatte col presente. Ogni angolo smussato, dai dolori levigato, si concede in un istante a quel sogno, finalmente. In un attimo è leggera, una nuvola anche lei, fra le nuvole, anche lei… Tutto sfiora la sua pelle. Non c’è veste, nè materia; la memoria è leggera e, nel cielo, si fa sera. Non la lascia. Non la perde. Lui la ama. Lei lo sente. Chiude gli occhi. Sente il tempo, le rincorse, le risate e ogni attimo è certezza. Cielo, monte, mare e ambrosia. Si trasforma in un istante… poi incanto… e promesse… e sorrisi sulla pelle. Lei non teme più il passato. Si distende sul dolore, nasce il giorno e il nuovo fiato. Seni, liberi e ruffiani, nel disegno complicato che  dal monte fino a valle, sfiora e scivola sul ventre e, ubriaco di sapore, lascia entrare primavera, che schiudendosi all’amore, si concede alla delizia, al concerto dell’intesa. Or distesi al nuovo sole, è un incanto, un incanto il loro amore

La lingua rossa – Storia di un amore

QUIET TOWN di Leonid Afremov
QUIET TOWN di Leonid Afremov

C’era una volta, tanto tempo fa, una città distesa sul mare. Non c’era giorno in cui il sole abbandonasse il cielo, nè pomeriggio in cui la pioggia piangesse troppo a lungo sulle panchine, sulla gente e sulle barche. L’imperituro sole tornava prepotente, colorando la tela accesa di quel piccolo mondo. Il tramonto sposava la pioggia senza che il vento lasciasse i colori del rosa, dell’arancio e della passione, distesi sugli abitanti di quella vecchia città

RAIN PRINCESS di Leonid Afremov
RAIN PRINCESS di Leonid Afremov

Fu proprio in uno di quei pomeriggi di aprile che la nostra storia ha inizio. Qualcuno, ai bordi della strada, suonava una musica al pianoforte e il cielo piangeva delicato, muovendo il vento, suo complice, nell’attesa del prossimo sole Lucilla era convinta che niente accadesse per caso. Per questo motivo, continuava a camminare cercando il coraggio di incrociare tutti i segnali che la vita le mostrava, con la voglia di viverla quella vita, di viverla davvero… o così credeva, fino a quel momento, fino a quella sera… la sera in cui ha inizio la nostra storia. Lucilla aveva tante paure, troppe paure, ma sorrideva, sognava e non piangeva, non piangeva mai

PRETTY NIGHT di Leonid Afremov
PRETTY NIGHT di Leonid Afremov

Anche Marco camminava solitario lungo la stessa strada. Lui, paure, non ne aveva e se ne aveva, non le mostrava mai. Tutti pensavano di conoscerlo, ma pochi sapevano davvero chi fosse. Conoscevano la sua risata, ma non il suo sorriso, conoscevano il colore scuro della sua giacca nera, ma non quello che nascondeva. Guardavano la sua vita in mezzo a tante altre persone, ma non sapevano quanto si sentisse solo. Lui non era stanco, non era mai stanco di essere stanco. Aveva il sonno composto di chi non conosceva la notte per riposare e continuava a camminare per la sua strada perchè, nonostante tutto quello che accadeva, i colori di quel mondo, lui, li conosceva bene… o così credeva, così credeva fino a quella sera, la sera in cui ha inizio la nostra storia

THE BRIDGES OF AMSTERDAM di Leonid Afremov
THE BRIDGES OF AMSTERDAM di Leonid Afremov

C’era un ponte alla fine di quella strada. Nè Lucilla nè Marco pensavano che i ponti fossero stati messi al mondo per essere attraversati, per regalare la meraviglia di scoprire cosa ci fosse dall’altra parte. Quella sera il destino un ponte l’aveva messo: alla fine della strada di Marco, all’inizio della strada di Lucilla. E l’aveva fatto così, il destino, senza chiedere permesso. Non aveva suggerito loro di attraversarlo, nè di seguire quella strada, ma li aveva preparati. In tutte le notti trascorse li aveva immersi nei sogni che presto, avrebbero svelato il sublime significato, poichè il destino lo sapeva bene che un sogno non è mai solo un sogno; un sogno è la lingua rossa della vita che ci ricorda chi siamo, che ci insegna chi essere per tornare ad appartenerci davvero. La lingua rossa ci ridà il  sapore dell’amore, il gusto della passione, la vita e il colori che, spesso, di giorno, non riusciamo a vedere. Fu così che attraversarono quel ponte. Quella sera. Lo attraversarono

CENTRAL PARK di Leonid Afremov
CENTRAL PARK di Leonid Afremov

In un attimo fu delizia e stupore. Si trovarono in mezzo a tutti coloro che attraversavano lo stesso ponte, loro… si trovarono. Non fu facile per gli altri capire come potesse essere possibile riconoscersi senza essersi mai visti, ma a Lucilla e Marco non interessava. Lei aveva paura, lui aveva coraggio per lei. Lui aveva paura, lei aveva coraggio per lui. La gente continuava a guardarli e, con fastidio, gli passava accanto cercando di fare ombra a quella luce… a tutta quella luce

KISS OF PASSION di Leonid Afremov
KISS OF PASSION di Leonid Afremov

Era tardi, troppo tardi. Nessuno può comandare la luce, quando nasce per volontà divina, qualunque sia la natura del divino che comanda l’amore. Le lingue verdi del sospetto e dell’inganno, continuavano a camminare vigliacche accanto a loro, ma loro non potevano udirle, non potevano udire null’altro che il sublime incanto della pelle colorata dal cuore. Liberi al di là dello spazio e del tempo, l’uno nutrito dal tocco dell’altra, dal respiro, dalla presenza, dal suono delicato di ogni parola. Lei continuava ad avere paura, lui a darle coraggio. Lui continuava ad avere paura, lei a dargli coraggio. Avrebbero voluto smettere di avere paura e riuscire a vivere senza quelle ombre del passato, senza le ferite, le parole dimenticate, i sogni non realizzati, e continuarono a tentare… ancora… ancora… ancora

LAST KISS di Leonid Afremov
LAST KISS di Leonid Afremov

Era sublime trovarsi, ogni volta. Al tramontare di ogni sole, Lucilla e Marco si ritrovavano senza usare labbra per proferire o mani per costruire, poichè ogni cosa era ingegno del sublime e incanto di un’alchimia che li consumava, nutrendoli. Lui le baciava le labbra, ricordandole tutto quello che era stata e promettendole, col suo tocco, tutto quello che sarebbe diventata. Lei gli stringeva i fianchi, attaccandosi a quella vita. Stringeva forte, per paura di cadere, per non ferirsi ancora… e stringeva così, in quel punto in cui il resto del mondo non sapeva più dove finisse l’uno e iniziasse l’altro

MOMENT OF PASSION di Leonid Afremov
MOMENT OF PASSION di Leonid Afremov

Sapevano che il loro tempo consumava i giorni e dilatava le attese di quelle parole che, ancorandoli al mondo, avrebbero dovuto unirli per sempre, ma non si chiedevano niente. Danzavano quando fuori pioveva e non avevano paura di tornare su quel ponte, di affrontare la pioggia, di ridere e ballare sotto quelle lacrime, convinti che nessuna pioggia avrebbe potuto raffreddare il loro amore. L’estasi del sublime non conosceva materia e nessuno riusciva a capire cosa potesse legare due persone che consideravano diverse, ma che erano simili più di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare, poichè non è diverso cioè che è dissimile, diverso è il diverso suono di due anime. Lei aveva paura, lui ebbe paura di darle coraggio. Lui aveva paura, lei ebbe paura di dargli coraggio

l 19Il rumore fuori si fece forte, fastidioso, prepotente e ogni persona di quel villaggio fece di tutto per chiudere quel ponte, sapendo che il passaggio della paura avrebbe reso il passo degli uomini impossibile, allontanandoli dal desiderio di attraversarlo, dalla voglia di scoprire e unirsi a quello che c’era dall’altra parte. Il compito delle lingue verdi era facile, complice della paura che ogni uomo porta dentro di sè e che, non credendo in se stesso, potrebbe nuocergli fino al punto di non riuscire più a sentire il proprio cuore. Fu così che il sublime si inginocchiò alla paura, dividendo le loro strade. Lei aveva paura, lui non le avrebbe dato coraggio. Lui aveva paura, lei non gli avrebbe dato coraggio.

COPENHAGEN MERMAID di Leonid Afremov
COPENHAGEN MERMAID di Leonid Afremov

In solitario dolore ella restò a osservare il mare, ricordando il breve tempo trascorso insieme a lui, incapace di spiegare al mondo come potesse essere possibile che pochi giorni superassero tutti gli altri tempi, le distanze e i millenari viaggi degli altri amori. Sarebbe stato impossibile spiegarlo, ma così era nel suo cuore e, sebbene fosse convinta che  niente potesse opporsi al destino, Lucilla sapeva che in quella fine c’era tutto l’amaro delle parole non dette, della leggerezza di un’assenza di paura che, lei, non aveva mai avuto. Adesso aveva paura. Non c’era lui a darle coraggio

MUSIC FIGHT di Leonid Afremov
MUSIC FIGHT di Leonid Afremov

Marco non era mai stato bravo a ricordare. Lui accendeva la musica, la forte musica che cavalcava il tempo, che non aveva distanze e, sì, forse nonostante tutto anche quella musica apriva una porta mai chiusa, ricordandole di lei, della sua pelle, del rossore che la infiammava ogni volta che la sfiorava, del sorriso che riempiva la stanza dei suoi occhi e di quello sguardo che gli dava il riflesso di una parte di sè. Non lo faceva spesso, non lasciava ai ricordi il potere di consumare i giorni. Aveva promesso a se stesso che avrebbe continuato a viverla quella vita, sempre, nonostante tutto, anche lì, nelle mani vuote che chiedevano di lei. Anche lì, nei corpi di tutte le donne che accompagnavano le sue notti, sui seni, sulle bocche, fra le gambe che non avrebbero lasciato ricordi. Aveva ancora paura. Non c’era lei a dargli coraggio

l 26Ma la vita ha una sola vela al comando di ogni respiro e, quella vela, quella vela chiamata destino, non poteva separarli senza avvalersi del complice vento che in ogni altro corpo e in ogni altre labbra avrebbe ricordato a Lucilla e Marco qualcosa di quel piccolo amore, di quei pochi giorni, quell’amore che così forte sembrava attaccato alle radici del cuore. Il sole continuò a sorgere, a tramontare… ancora… ancora… ancora, fino a che gli anni passarono e inconsapevoli di ogni altra cosa, giunsero al tramonto di un nuovo aprile. Lei l’aveva sognato, senza avere paura. Lui l’aveva sognata, senza avere paura

EXPECTATIONS di Leonid Afremov
EXPECTATIONS di Leonid Afremov

Lucilla si svegliò una mattina con un’unica certezza: la lingua rossa d’amore che aveva rivisto durante i sogni di quelle notti, non poteva essere stata un caso. Nessuna lingua verde avrebbe potuto capire, poichè chi porta il veleno e l’angustia nel cuore, non potrà mai sentire cosa cela la purezza stessa della parola amore e, osteggiandola, denigrandola e combattendola nella menzogna, la lingua verde non si accorge che essa stessa contribuisce a renderla immortale scoperchiando ogni vaso, liberando tutti i venti al richiamo dell’immortale sentire. Raggiunse una sponda senza ponte, si stese un’altra notte ancora, sognando la costruzione di un brillante nuovo ponte e lo sognò con tanto impegno, che al suo risveglio cento pittori disegnarono un ponte, là dove non c’era più memoria triste delle acque perdute. Dimenticò la paura, ebbe coraggio. Marco immaginò di ritrovarla al di là del ponte. Si ritrovò a camminare lungo quella sponda e decise, in pochi attimi, decise: lo avrebbe attraversato. Se qualcuno in una notte aveva costruito il disegno di quel ponte, lui sarebbe riuscito ad attraversarlo, sì, l’avrebbe fatto. Dimenticò la paura, ebbe coraggio

LAST KISS 2 di Leonid Afremov
LAST KISS 2 di Leonid Afremov

Ritrovarsi in un respiro. Osservarsi, poi cercarsi. Non fuggire, non staccarsi, non pensare di provarci. Non parlare, non sentire. Una gioia a mai finire. Era questo, dopo anni, quell’incontro del destino. Era un attimo, un’intesa, un ricordo e la pretesa di riavere in un secondo tutti i soli di quegli anni e le lune delle notti… e le stelle… e le montagne, le parole, le distanze, tutte quelle chiuse stanze. Ora c’erano le porte, spalancate, divorate dal quel tocco tanto atteso, cancellando dal suo seno le distanze mai esistite, nel respiro prepotente di quel tocco e del presente

BURGER JOINT di Leonid Afremov
BURGER JOINT di Leonid Afremov

Cento vite e una sola. Certo lingue e mille occhi. Tutti insieme e mai nessuno. Solo un fiume di racconti, di scoperte, di dolori. Tutto il filo del destino si dipana come vino sopraffino e al palato innamorato svela e scopre ogni inganno malcelato, ogni pagina di vita, verde sporco di antica invidia e levando il sipario svela ai due protagonisti ogni trama e colpo basso, che li ha resi tristi e vinti. Ogni cosa adesso è chiara. Ogni gesto mal riposto, ogni croce di delizia che, ruffiana nei dolori, ha svelato a lor signori, fra la gente, i bravi attori

l riserva 1Lucilla e Marco e il loro ponte, quella vita e le sue trame. Sol chi segue il proprio cuore è padrone del destino, marinaio e vela insieme. Come monito di vita, che si levi ogni sipario, che la pelle tremi ancora e le lingue tanto odiate ricacciate, ritirate nelle tane rinnegate. Or frustrate, prigioniere, nell’alcova del silenzio di una bocca, a non proferir parola, se non mosse dall’amore, gentilezza sopraffina di una vita che non sconta e non declina sotto il peso dell’inganno. E’ un fardello la congiura, che non dà giustizia alcuna. Si può vivere in un castello, anche il più bello, ma non vinci mai la guerra se l’amore è ancora lì, nella stanza sua più bella

 

Paolo Borsellino – un sognatore a Palermo

Paolo_BorsellinoQuando ero adolescente, un turista mi ha fermato per strada per chiedermi dove potesse andare per vedere la mafia, da allora mi sono sempre chiesta in che Italia vivessimo e quanta ignoranza ci fosse in giro per il mondo. Il 19 luglio appena trascorso molti hanno parlato dell’importanza o meno di partecipare alla commemorazione di Paolo Borsellino, personalmente trovo inutile commemorare ufficialmente un eroe, stando in piedi accanto a quella mancata giustizia che ha contribuito alla sua morte. Quindi il mio modo di ricordarlo e’ questa storia inventata, nella quale ho immaginato che lui tornasse in visita a Palermo per un giorno e sorridesse allo stesso mare che così tanto ha amato

Lucia Bonelli

“Mi scusi, per il Foro Italico, prendo da qua?” Il signore a cui avevo chiesto l’informazione portava un cappellino di quelli sportivi, non sembrava tanto grande, ma dal passo incerto non capivo se fosse di qua o se fosse un turista come me. Il mio dubbio non durò che un attimo, mi bastò sentirlo parlare, anche solo sentirlo respirare l’aria vicina del mare, così come stava facendo. Si girò verso di me e mi guardò con un sorriso misto alla presa in giro e alla riverenza

“Certo che è di qua. Può venire con me, io sto andando là”. Quello che seguì a quelle parole fu stupore e meraviglia. Mi sembrò che per un attimo di tempo il mondo si fosse capovolto, che gli anni non fossero passati e che la linea del tempo non fosse mai esistita.

“Ma lei è…” azzardai senza che mi lasciasse finire la frase

“Un palermitano” mi sorrise

“No, no. Lei è…”

“Un vecchio palermitano..” mi interruppe di nuovo

“Lei è Paolo Borsellino…” la mia voce tremava e il mio passo era rimasto dietro il suo che avanzava più deciso. Indossava una polo verde e i suoi baffi non erano cambiati. Non un filo bianco aveva appesantito la sua figura cheBorsellino sembrava ferma a molto prima di… sì insomma, molto prima che…

“Allora ci muoviamo?” interruppe di nuovo i miei pensieri, mentre io, in preda a uno stato confusionale accelleravo il passo per raggiungerlo come i ragazzi corrono verso il pullman della gita scolastica.

“Non ci posso credere. Lei qui? Ma che ci fa qui? Non è… Sì insomma, lei dovrebbe essere..”

“Morto? Su avanti lo dica… o lascia sempre le frasi a metà lei?”

“Sì.. morto.”

“E allora? Lei mi vuole dire che non ha mai visto morti che camminano?” rise di gusto “Sa quanti ne ho visti io, persino quando mi guardavo allo specchio. Aspetti un minuto, sente che odore?”  il passo ancora più veloce, stentavo a stargli dietro. Si stava dirigendo verso uno stigghiolaro all’angolo della strada. L’odore classico di una Palermo indimenticata “Ecco, venga qua, così lo capisce cos’è che fa resuscitare i morti a Palermo”. Salutò il signore alla cucina e continuò

“Com’è che non l’hanno riconosciuta?” chiesi spaventato

“Chi?”

“Quel signore, com’è che non l’ha riconosciuta, tutti conoscono la sua faccia. Lei lo sa che oggi è il 19 luglio vero?”

“Lo so io, i miei baffi, le mie gambe, le braccia, il cuore. Sapesse quanto sono più leggeri da quel 19 luglio”

“Sa che tutti le farebbero una domanda al posto mio?”

“Come se già non me ne avesse fatte abbastanza vero?” rise ancora

022230303-f3ea872b-d5bd-4c70-ae55-234ff422d6ec“L’agenda rossa… Sì, insomma. Che fine ha fatto?”

“E come faccio a dirglielo? Se io le parlo del passato, le stravolgo il futuro e alla fine neanche il presente esisterebbe più. Non è importante l’agenda. Non c’è niente di più di quello che la gente non voglia vedere. Lei le sa le tabelline?”

“Le tabelline?” continuavo a sentirmi entusiasta da una parte e divertito dall’altra. Aveva questo modo di parlare di cose gravi caricandole di sarcasmo che adesso stavo riconoscendo

“Sì, le tabelline.”

“Certo che le so.”

“Ecco appunto. C’era questo nell’agenda rossa, nè più nè meno. Non c’era niente che non sapessero tutti e c’era tutto quello che per capirlo, per capirlo davvero, bastava fare due più dure. Pure oggi, lo sa? Pure oggi..”

“Pure oggi cosa? Si era distratto di nuovo perchè stavamo arrivando a piazza Magione

“Santa Rosalia che odore!”

“Quale odore?” mi girai intorno confuso cercando di sentire qualche odore proveniente da qualche cucina, ma non c’era niente, solo pietre, terra e sedie

“Ma lei da dove viene?”

“Da Treviso.”

“E non lo sente questo odore di zagara? Questo odore di sale, di sole e di terra bruciata? Ah che mancanza, che Paradiso”

“Sì, lo sento” gli sorrisi e lo guardai così felice come forse non lo avevo mai visto in televisione

“L’inferno è più saporito del Paradiso lo sa? E ogni tanto tornarci non fa male”

“Lei non ce l’ha con Palermo?”

“Con Palermo?” Rise della risata più fragorosa fino a quel momento. “E perchè?”

“Perchè non l’hanno saputa difendere. Perchè non l’hanno salvata. Sì, insomma, perchè… perchè è morto”

È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore Borsellinouna volta sola”

“Era qualcosa che aveva preso in considerazione”

“Io accetto, ho sempre accettato le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro”

“Non è mica così facile non avere paura. Non siamo tutti eroi. A volte abbiamo paura di tante di quelle cose così stupide, nella vita di tutti i giorni”

“La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”

“E’ per questo che non ce l’ha con Palermo?”

mafia-clipart-bigger-version-hi“Non ce l’ho con Palermo. Ce l’ho con Roma, con l’Italia, con l’Europa, con il mondo, perchè è là che stanno gli sciacalli, quelli che piegano la testa al malaffare, quelli che il malaffare lo rappresentano, lo articolano, lo vendono, lo spacciano, lo fanno sedere in Parlamento, nelle poltrone di potere..”

“Ma oggi c’è l’Antimafia e abbiamo fatto tanti passi avanti” rise in un momento come questo in cui non me l’aspettavo

“L’Antimafia funziona solo quando non combatte se stessa”

Si mise a parlare con un fruttivendolo che gli faceva assaggiare un pomodoro fresco di stagione. Mi raggiunse di nuovo e camminammo attraverso piazza Kalsa fino al mare

“Lo vede perchè non ce l’ho con Palermo? Guardi qua che bellezza, guardi qua che colori, che mare. Shh… lo sente”

“Cosa?” tesi l’orecchio

101“La confusione che c’è.. Il mare, i bambini che giocano per la strada, le macchine, i clacson, le lumache, l’autista per chi non digerisce, il limone la zagara e quello, lo vede quello?” indicò  una nava che stava lasciando il porto “Quello è il rumore più brutto di tutti, perchè quello è il rumore di chi se ne va, di chi non ce l’ha fatta, di chi ha scelto di non combattere o semplicemente di chi deve andarsene, perchè in qualche modo deve pure mangiare, deve lavorare per il sacrosanto diritto alla dignità umana, al rispetto, al nobile lavoro. Quello è il rumore più triste perchè deve suonare forte quella sirena e ci deve ricordare che tutti quelli che restano devono fare in mondo che loro tornino, che tornino presto, perchè un palermitano che se ne va non sarà mai cittadino del mondo, sarà sempre e solo un palermitano che vuole tornare. Le faccia ascoltare a tutti quelle sirene, e se ne venga qua quando sente di avere paura e immagini la paura di quelli che se ne vanno, quelli che domani mattina non lo vedranno più questo sole e si chieda se è giusto che lei debba avere paura e poi si concentri, perchè se qualcuno è rimasto è rimasto anche per loro e li deve fare tornare, li deve fare tornare”

“Ma se le cose vanno sempre in un modo, come possiamo credere che cambiaranno se quando qualcuno cerca di cambiare le cose poi muore ammazzato?”

“La vede quella bella femmina palermitana là, in fondo.. La vede?”

“Quella che prende il sole?”

“Sì, quella che prende il sole. Oggi lei la guarda e la vede come quella che prende il sole, ma gli uomini di qualche secolo fa sa come la vedrebbero? Come la donna che può votare, che può scegliere, che può dire quello che pensa, come la donna a capo di organizzazioni, di imprese, di ordini e quelle persone si chiederebbero “Ma che è successo?” Ecco perchè lei deve lottare lo stesso, perchè qualcuno prima di lei l’ha fatto per lei e le permette di essere libero, di camminare, perchè ha permesso a quella donna di votare, di essere considerata un essere umano alla pari con l’altro sesso, perchè lei ha libertà di dire come la pensa, di gridare sottovoce, di scrivere, di non smettere di parlare e la stessa cosa sarà per la mafia un giorno. Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene. E prima o poi farà tanto di quel rumore che non ve lo immaginare… Ma il vero problema della mafia non è la mafia.. sono i mafiosi”

“Quelli sì che fanno paura. Spero di non incontrarne mai” lui rise di nuovo

“Lo vede… E’ questo il problema. La gente deve smettere di lottare contro la mafia come un concetto astratto. La
imagesgente deve lottare i mafiosi che non sono le braccia armate delle campagne, i mafiosi sono in mezzo a tutti, il fruttivendolo, l’impiegato delle poste, il parlamentare, il panettiere. Noi tutti possiamo essere mafiosi, persino i picciriddi che si danno appuntamento alle tre del pomeriggio per  sistemare quella litigata a scuola, persino quelli sono mafiosi e mi creda, tutto si riduce alle madri e ai padri. Una madre che prende per le orecchie un figlio così e lo mette in carreggiata avrà creato un uomo pulito domani. Un genitore che va a rimporverare un insegnante perchè rimproverando un ragazzo lo ha ferito psicologicamente, sarà il genitore di un uomo che penserà che la vita, la libertà e i suoi desideri gli saranno dovuti e se li prenderà, nel bene e nel male,e per farlo userà tutti i mezzi. La mafia è la prepotenza dell’egocentrico che vuole possedere, che vuole essere… Questa è la mafia. Eccolo. Siamo arrivati” abbassò il tono della voce e mi guardai intorno, ma non c’era niente, solo prato e terra. Lui si chinò e cominciò a scavare con le mani

“Ma che sta facendo?” mi chinai a mia volta

“Lei è la persona che fa più domande che io abbia mai conosciuto e mi creda ne ho conosciute di persone che fanno domande!” finì di scavare e con mia estrema sorpresa tirò fuori un pallone da calcio. Era ricoperto di terra, ma lo ripulì con le mani e con la maglietta. Quando finì lo guardò soddisfatto “Eccolo. Ecco il motivo per cui sono venuto”

“Un pallone?”

1992-Giovanni-Falcone-e-Paolo-Borsellino_h_partb“Il pallone. E’ mio e di Giovanni Falcone. E’ così che ci siamo conosciuti ed è così che ci siamo divertiti e mi creda, il Paradiso è proprio un bel posto, ma i palloni di Palermo sono tutti un’altra cosa!”

“Giovanni Falcone?”

“Giovanni” ripetè

“Ho letto nel maggio appena trascorso quello che lei ha detto dopo la sua morte”

“Oh me lo ricordo bene. Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero… ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge”

“E’ triste. E mi riporta a chiedermi ancora perchè lottare”

“Chi sta correndo sa che suderà, altrimenti non sarebbe un bravo corridore. Chi sta guidando, sa che le ruote gireranno, altrimenti no riuscirebbe a muoversi. Chi sta vivendo deve lottare, altrimenti sopravviverebbe e che gli resterebbe da fare? Quattro aperitivi, quattro giornali scandalistici, un poco di sole in estate e miliardi di minuti da aspettare. Ma chi lotta lo vede che fa? Si gode la vita, se la fa sotto, continua a camminare, ma torna…se lo torna aKONICA MINOLTA DIGITAL CAMERA prendere quel pallone, perchè le persone che lottano con te non te le dimentichi”

“E’ questa l’amicizia”

“L’amicizia non esiste ragazzo. L’unica persona di cui ti devi fidare è la tua mano, là inizia la tua fiducia e là finisce, un circolo, chiuso, sbarrato”

“Ma lei e Giovani eravate amici”

“Quella è la fratellanza è un’altra cosa. Se tu cammini lungo una strada e credi che il verde sia verde e lungo la strada incontri un’altra persona che come te pensa che il verde sia verde, allora vi unite e credimi l’arcobaleno diventa più forte più carico, perchè si carica di un colore in più. Ma è questa l’unica amicizia possibile, la fratellanza, il riconoscimento di una persona che crede in quello che fai perchè ci crede anche lui. Gli adulatori, i falsi amici, tutto il resto sono pericoli, minano il tuo cammino e ti scorticano le spalle”

“Ma come ha fatto a non avere paura?”

“Ho avuto paura ogni giorno, esattamente ogni giorno. Ma ho avuto una strana cosa, l’incoscienza di pensare che se stavo qua su questa terra, forse qualcosa di buono la dovevo combinare. A proposito, ora devo andare. E’ tardi e le donne non si fanno aspettare. Lei lo sa che le donne non si fanno aspettare vero?”

“Le donne?”

“Ho promesso ad Agnese un pranzo sul mare e non me lo voglio perdere”

“Sa che Agnese Borsellino è stata la donna che più ho ammirato? Non è mai diventata il fenomeno Borsellino, è rimasta sempre sua moglie, solo sua moglie e mi ha fatto credere che forse l’amore esiste. Giudice Borsellino, ma secondo lei l’amore esiste?”

07borsellino“Esiste tutto quello in cui crediamo e otteniamo solo quello per cui lottiamo, ma deve essere così, come questa terra” strinse un pugno di terra lasciandone cadere un po’ dalla mano “Semplice.. E la giustizia non è semplice, la giustizia ha bisogno di soldati della legalità e questi soldati spesso muoiono, perchè la legge non è uguale per tutti, almeno fino a oggi… Ma se lei crescerà dicendo di no, se i suoi figli cresceranno dicendo di no… Allora duecento pietre costruiranno una nuova cattedrale e quello sarà l’inizio di un nuovo mondo. Torni nella sua terra e dica a tutti che Lei la mafia non l’ha vista a Palermo, perchè ha capito che la mafia la può vedere dovunque, nella sua città, nel suo comune, nei comuni a un chilometro e in quelli a cento chilometri, ma gli dica che a Palermo ha trovato una conca piena di sale grosso, di passioni consumate e di dolcezze amare come questo sole che dalle altre parti quasi non esiste e che tutte le ferite prima o poi dovranno essere curate”

“Mi ricorderò per sempre di questa giornata.. non la dimenticherò mai…”. Mi sorrise e fece per andare via, poi rallentò il passo, si guardò intorno e tornò indietro, si piegò verso di me e sottovoce mi disse “Non è che per caso ha una sigaretta?”

Sulla Riva del Destino

L’amore non si prova con i fatti, l’amore si prova con il cuore. I sentimenti non si dimostrano, si portano dentro. Se non ci sono non si possono creare, stimolare, pregare e anzi ti portano a chiederti se chi non ha capito ogni tuo giorno, ogni momento passato, sia davvero una persona che possa dire di conoscerti.  William Shakespeare diceva “Quando non c’è più rimedio è inutile addolorarsi, perché si vede ormai il peggio che prima era attaccato alla speranza”… E allora ti siedi, con una stanchezza mai provata prima e capisci che in certe cose la mente non potrebbe partorire nessuna idea che per quanto meravigliosa, possa davvero colpire il cuore. Ma Shakespeare ha ragione “Piangere sopra un male passato è il mezzo più sicuro per attirarsi nuovi mali”.

1545014_10152916399962722_1800990411252876396_nE ti chiedi quanto possa essere romantica e stupida la natura umana, poiché un atto d’amore può strappare solo un divertente sorriso là dove avrebbe dovuto strappare emozione e allora diventi geloso di ogni dimostrazione e cerchi dovunque quella chiave con cui l’avevi chiuso il cuore prima che la vita diventasse più forte della tua volontà e spalancasse nuovamente le tue porte. La cerchi. La ricerchi e non vedi l’ora di ritrovarla per proteggerti di nuovo. Ma poi non ti penti di niente e rubi ancora le parole di William per ricordare a te stesso che “Nulla è buono o malvagio in sé, è il pensiero che lo rende tale”. E allora sorridi, ti scrolli la stanchezza di dosso e capisci che la vita è troppo preziosa per inginocchiarsi agli altri destini…ed è ora di ricominciare davvero a camminare nelle tue scarpe, con la tua di anima e di cantare nuda sotto una pioggia d’estate mentre ridi e il mare a due passi da te ti invita
a nuotare come mai avevi fatto, convinta che non importa cosa perdiamo  lungo il percorso di quando siamo stati noi stessi, poiché è vero che nulla che ci appartenga davvero rischia di perdersi fra queste confuse pagine del destino.. Perché tu lo sai che per quanto dolore tu possa avere provato, in un attimo ci crederai di nuovo e accadrà non quando qualcuno smuoverà mari e monti per te, al contrario accadrà quando l’unica cosa che smuoverà sarà il tuo cuore, con un’eleganza, una passione e un rispetto che forse ancora,  fino ad oggi non hai mai conosciuto. E allora avrà smesso di piovere e uscendo dall’acqua troverai qualcuno ad aspettarti divertito. Qualcuno che ti avrà vista piangere, ridere, nuotare in quel mare pieno di tutti i tasselli del tuo destino. Imbarazzata cercherai di coprirti, ma lui sarà più attento ad ogni passo e ti offrirà un telo per ripararti e il suo calore per asciugarti e tu ripenserai al tuo amato Shakespeare e capirai che aveva ragione… e mentre inizierete a camminare insieme nell’inizio di una nuova vita, come se fosse musica tu ricorderai il suo sonetto più bello: “Non sia mai ch’io ponga impedimenti all’unione di anime fedeli; Amore non e’ Amore se muta quando scopre un mutamento o tende a svanire quando l’altro s’allontana.Oh no! Amore e’ un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;e’ la stella-guida di ogni sperduta barca,il cui valore e’ sconosciuto, benche’ nota la distanza.Amore non e’ soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote dovran cadere sotto la sua curva lama; Amore non muta in poche ore o settimane,ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio: se questo e’ errore e mi sara’ provato,Io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.”

Io Confesso – Racconto

Respiro un canto nuovo in questa città perduta nella sua storia.
Fra il rosso del loro sangue si è accesa la tua luce.
Non importa che il sole tramonti stanotte,
l’imperituro sole della verità non morrà

lei1“Vittoria! Lui è uno di loro. E’ la pedina fondamentale”. L’uomo che mi aveva generata era il complice della strage del giudice Giannola. Allo stesso modo era stato coinvolto nell’omicidio di Paolo, il più caro amico di Giovanni, giornalista morto in cerca di una verità che aveva trovato. Non avevo mai conosciuto un ragazzo che sognasse di fare il giornalista così come lo sognava Paolo, ma la sua sfortuna era stata la ricerca della verità fra le mura di un convento, là dove la verità stessa era soffocata per mai essere svelata. Frate Germano, vicario del Convento di San Patrizio di Cutanò, aveva mosso negli ultimi anni il braccio oscuro della chiesa, che nel fango e nell’ingiustizia si era stretto ai signori di Cutanò, perché non è mai esistita mafia che non si sentisse benedetta da Dio. Cerco di tornare alla realtà e continuo sui miei passi.
Piazza Vittorio Veneto è un tripudio di colori. Alzo lo sguardo e in prospettiva scorgo la maestosa figura della Statua della Libertà che sembra mescolarsi confusa ai panni stesi sui balconi, affacciati come fronde di cemento su questo grande cerchio.
Tremo. Ho paura. Tentenno.
Conto i passi fra la gente senza mettere a fuoco nessuno dei loro visi. Il mio obiettivo è quello di raggiungere il Palazzo delle Aquile, dove fra un’ora si riunirà il consiglio comunale. Una volta là consegnerò la mia verità. Mio padre è lì e non immagino neanche che cosa proverà quando mi vedrà arrivare. E’ strano… adesso che sto per raggiungerlo non ricordo neanche il suo viso. Il pensiero di Giovanni affolla la mia mente dandomi conforto: il suo odore, il suo sapore, la forza delle sue mani che non mi hanno più lasciata ed eccola: lo sguardo si posa sulla lapide in memoria di Piersanti Mattarella dove per la prima volta ci siamo conosciuti. Sorrido mentre il mio passo tentenna. Sarei stata felice di avere la certezza di sorridere accanto a lui per tutta la vita piuttosto che quello cui stiamo andando incontro? Oh, non che non lo sarei stata, ciò che abbiamo vissuto anche per brevi attimi vale il conto dell’eternità.
lei2L’asfalto che in prospettiva brucia, sembra diventare di ghiaccio non appena conosce i miei passi. Un maestoso scalpitio di cavalli sulla cima del Teatro Politeama mi fa rendere conto che sono arrivata quasi in via Ruggero Settimo, la strada che ospita lo studio dell’avvocato Gittoni, caro amico di famiglia.
“Avvocato carissimo”
Un uomo con dei pantaloni rossi e dall’accento di provincia mi dà le spalle mentre abbraccia proprio l’avvocato Gittoni, salutandolo a pochi metri da me.
Quello che vedo mi gela il sangue
Vittoria non cedere adesso
Non è possibile che sia così. Ci deve essere un errore.
Tremo.
Quello è lo stesso uomo che si trovava nel casolare di Cutanò, quando hanno deciso di uccidere Paolo. Se loro due si conoscono significa che l’avvocato sa chi è questa gente. Ed è lo stesso uomo che abbiamo visto uscire dallo studio del dottore Filangi, che si è occupato dell’autopsia del corso di Paolo. Mi ricordo che Giovanni mi disse che per via dei pantaloni rossi che indossava e della facilità con cui sparava la famiglia lo chiamava il Piombo rosso. Lo ricordo perché la parola piombo mi aveva subito fatto pensare ai proiettili e il rosso al sangue e…
“Vittoria, che ci fa lei qui?” L’avvocato mi sta salutando avanzando velocemente verso di me e sento di avere fatto un passo falso. Il piombo rosso si allontana accendendosi la sigaretta, ma sento che mi guarda, che sa chi sono, che cerca me. Ha un ghigno che non so decifrare e si ferma sotto i portici.
“Avvocato, salve.”
“Venivate da me?” mi sorride, ma avverto la forzatura nel suo atteggiamento.
“Sì, certo, venivo da lei”
“Ne ero sicuro, venga con me”
Il mio sangue gela.
“Vittoria…” ripete con un sorriso fra i denti. “Non le dispiace se salgo anche io vero?”
Sento i suoi passi dietro di me lungo le scale antiche che stiamo per salire, tutto intorno a me sembra offuscato.
“Si accomodi”
“Avrei bisogno del bagno un istante, se non vi dispiace” sorrido mostrandomi improvvisamente calma. So benissimo che il bagno si trova vicino alla porta d’ingresso mentre lo studio dell’avvocato è l’ultima porta in fondo al corridoio. L’uomo con i pantaloni rossi guarda l’avvocato insospettito ma mi lasciano andare.
Il bagno, lo specchio, l’odore nauseante della vaniglia che si mescola con la muffa delle persiane di legno, le spalanco lentamente. La grondaia è solida e la tettoia del pianterreno è un alluminio che di certo riuscirà a sopportare i miei 47 chili. Tiro fiato e salgo sul davanzale non c’è nessuno nel punto luce del grande palazzo antico.
“Vittoria, va tutto bene? La stiamo aspettando” Mi sento chiamare da dietro. Riesco a scendere con difficoltà, sono quasi arrivata quando la scia di un gatto rimbomba nelle mie orecchie facendomi perdere l’equilibrio. Tentenno. Sto per cadere, ma riesco finalmente ad arrivare a terra. Mi pulisco le mani sui jeans e mi accorgo di lasciare una macchia di sangue: la mia mano destra ha un taglio profondo e mi guardo intorno per essere sicura che nessuno mi abbia visto. Non posso perdere tempo, la mia è una lotta, una corsa, una fuga e per nessuna di queste cose viene concesso del tempo in più.
“Che fa? Se ne va già via senza salutare?” Perdo ogni forza: il piombo rosso è davanti a me e sorride fra i denti mentre si avvicina a me prendendomi per un polso. “L’avvocato ci tiene alla buone maniere”.
La sua presa è forte e mi gira quasi il polso strattonandomi verso di lui, fino sopra le scale. Con mio stupore dopo i primi tre gradini del portone non saliamo le scale, ma prendiamo la rampa che scende.
Apre con una mano la porticina che ci porta in una specie di cantina con tante porte e richiude la porta dietro di sé. Per un attimo penso che anche io, esattamente come Paolo vedrò la fine con i miei stessi occhi e dentro di me penso a Giovanni e al fatto che non potrò più salutarlo, che ho fallito e che nessuno saprà mai la verità, ma non posso avere paura io non devo…
Apre una di quelle porte e mi butta dentro come se fossi un sacco di cui si deve liberare. Prende una corda e mi lega i polsi dietro la schiena.
lei 3Dal giorno in cui ho scoperto la vera natura di mio padre ho iniziato un cammino parallelo per rendermi per scoprire fino a che punto fosse sporca la sua vita e lui aveva scoperto il mio legame con Giovanni, figlio primogenito del capo del mandamento di Cutanò. E’ a lui che penso mentre l’uomo mi soffoca la bocca con dello scotch. Giovanni era stato cresciuto con le regole di una famiglia d’onore, soffocando da sempre quella volontà di tirarsi fuori, di vivere, di ricominciare seguendo quello che sentiva di essere dentro.
“Puoi farlo” gli avevo detto un giorno.
“Una mela marcia caduta da un albero non potrà mai diventare rosa” mi aveva risposto.
“Ma io sento il profumo di quella rosa”
“Lo so…” mi aveva accarezzato il viso baciandomi “è per questo che io sono qui”

***

I ricordi si spezzano non appena l’uomo esce sbattendo la porta dietro di sé. Mi guardo intorno e vedo solo buio. L’unica finestra che dovrebbe dare nel punto luce lascia filtrare una fioca ombra smorzata dalle persiane accostate. Non potrò mai arrivarci. Le mie lacrime bussano prepotenti ed io le lascio entrare. Cerco di muovermi e salto per vedere che altezza posso raggiungere, ma è troppo alta non riesco ad arrivarci. Sento la chiave che gira nuovamente nella porta e l’uscio si apre lentamente.

Regna il silenzio, i passi sono impercettibili, felpati, nascosti ma evidenti. La porta viene richiusa, ma non riesco a voltarmi. Sento un’essenza nell’aria, ma temo che la mia mente mi stia giocando brutti scherzi e non ci faccio più caso. Il sangue mi scorre lungo le dita e la corda stringe dietro la schiena. La persona si avvicina a me con una calma confusa e sento che mi prende per le spalle, con una presa leggera ma sicura, il suo odore è più forte, adesso lo riconosco, è lui.
“Vittoria” mi dice improvvisamente sottovoce. Sento come se il mio copro si rilassasse e rilascio il fiato che avevo trattenuto così a lungo. Voglio voltarmi, ma non riesco a controllare la mia reazione ed inizio a piangere. Averlo qui, accanto a me, di nuovo mi sembra un sogno, ma ho paura e so che non significa niente di buono, così ho paura e non mi volto.
Lui si china sulla mia testa mescolandosi ai miei capelli. Sento il suo respiro affannato e ho paura di chiedergli perché sia qui piuttosto che al sicuro.
“Voltati, ti prego” la sua è una preghiera e accompagna la sua richiesta ai movimenti del suo braccio che mi spingono dolcemente verso di lui, voltandomi. La stanza è buia perché la porta è richiusa e non possiamo vederci chiaramente, ma lui è il paradiso nell’inferno del mondo e anche lì lo riconosco. Si accorge dello scotch e si agita “Come stai?” Mi chiede mentre lentamente ma con decisione me lo tira via per liberarmi. Si accorge che sto piangendo. “Vittoria”
“Giovanni, perché sei qui? Te ne devi andare subito, mi hanno scoperta, se tu resti sarà finita per tutti e due, prendi il mio zainetto e fai tu quello che avrei dovuto fare io ti prego sei ancora in tempo..”
“Shhh…” mi prega quasi di non ricordargli la realtà, ma io continuo a supplicarlo.
“Il piombo rosso è qui, ma tu… aspetta, se tu sei qui significa che l’hai visto..” continuo a fare le mie congetture mentre taglia con un coltello le corde che legano i miei polsi e finalmente sono libera.
“Ma sei ferita… tu sei ferita fammi vedere…”
“Mi vuoi ascoltare? Giovanni sto parlando con te. Dimmi perché sei qui e fallo subito”
“Ti devo uccidere”
Resto in silenzio e nell’ombra trovo i suoi occhi che trovano i miei
“Non potevo restare da Padre Clemente mentre tu facevi tutto questo per noi da sola, così li ho chiamati”
“Tu sei impazzito”
“Ed ora sanno che sono dalla loro parte e sono io che devo ucciderti”
Mi prende le mani, guarda le mie ferite, se le porta alla bocca e le bacia dolcemente
“Giovanni guardami” sento che mi sta nascondendo qualcosa, temo di sapere cosa, ma a questo non voglio credere, non posso credere. “Lui… lo sa…” Apre i palmi delle mie mani e le bacia ancora “Lui lo sa…” continuo a ripetere confusa, stordita senza più il terreno sotto i piedi: mio padre ha ordinato di uccidermi. Cado in ginocchio, vittima delle mie emozioni.
“Non succederà, io non lo permetterò, ma non c’è tempo adesso per parlare, Vittoria vai adesso e continua la tua strada, devi arrivare fino a lì, te la senti ancora? Vittoria?”
“Si, io lo devo fare, ma che cosa gli dirai tu?”
“Lui e l’avvocato sono sopra. Adesso tu vai, al resto ci penso io”
“E dopo?”
“Stai tranquilla.” Mi bacia improvvisamente. “Non c’è tempo adesso, non c’è mai tempo per noi” continua a baciarmi mentre le sue braccia cingono i miei fianchi quasi soffocandomi lo sento tremare “…Io ti ho amata per le domanda che non mi hai fatto” continua a tremare “…ti ho amata perché mi hai fatto credere che c’era qualcos’altro che io potevo essere, che c’era un uomo che io potevo ancora diventare” scende lungo il mio collo e mi bacia mentre il suo respiro è affannato e sento la sua urgenza di respirarmi sempre con più forza. “ti ho amata perché hai baciato i miei peccati e mi hai reso per un attimo di nuovo un figlio del tuo Dio” solleva le sue braccia e le sue mani afferrano il mio viso e mi bacia stanco e tremante “Grazie” sussurra.
“Giovanni, vieni con me, ho paura che sia troppo tardi che tu… che io…”
“Esci, adesso” si avvicina alla porta e esce facendomi segno di seguirlo fino a che mi lascia continuare da sola.

***

Arrivo a Palazzo delle Aquile che l’ora è passata da un pezzo, ma i ragazzi di Addio Pizzo sono già lì a protestare, come avevano programmato.
Il mio petto si alza ritmicamente col battito del mio cuore e del mio respiro affannato. Arrivo in alto e apro la porta facendomi largo fra i pochi cittadini che stanno assistendo alla seduta del consiglio comunale.
“Vittoria che bello rivederti” Pietro Raimondi il cugino di una mia carissima amica è lì inaspettatamente con un blocco in mano.
“Ciao” sospiro senza ormai più fiato
“Tutto bene?”
“Non direi ma andiamo avanti, che ci fai qui tu?”
“La politica è la mia passione, non lo sapevi?”
Mentre continua a parlare cerco di avere il coraggio di guardare in faccia colui che sto cercando, ma prima di cercare il suo viso mi soffermo a guardare quella sala come non l’ho mai guardata.
Lapidi e lapidi che ricordano.

In memoria dei martiri della mafia caduti per il riscatto della nostra terra affinchè il loro sacrificio risuoni monito perenne alle coscienze e guidi l’operato di ciascuno nella difesa dei fondamentali diritti e della libertà dell’uomo contro la violenza e affinchè le future generazioni possano essere liberate da tante barbarie

Sento una sensazione strana, come se tutte quelle lapidi potessero parlare. Sono lapidi, ma io le sento respirare e parlare e gridare e mai la mia vita aveva conosciuto un’eco di pietra più penetrante.
Pio la torre.
Non sento il respiro.
Piersanti Mattarella.
Ancora meno respiro
“Vittoria stai bene?” mi chiede Pietro strattonandomi
Davide Giannola.
Il fiato finisce, improvvisamente
“Non te ne andare” rispondo a Pietro quasi poggiandomi su di lui. Un lacrima cresce mentre il mio sguardo non si stacca dalla lapide di Capaci.
“Scusa…”
“Scusa di cosa? E’ tutto ok stai tranquilla, ti accompagno fuori?”
“No, non parlo con te” rispondo quasi sussurrando mentre il mio sguardo non si stacca dalle lapidi delle stragi che Giovanni non è riuscito ad evitare. Si, colui che ami si è macchiato del peccato di non essere riuscito a dire di no. Era lui lì all’Addaura su quella barca la prima volta che avevano deciso di uccidere il giudice e ci è riuscito, ha potuto evitarlo, ma loro non possono sbagliare due volte. Adesso spero che sia in salvo, lui ha un’anima ed io l’ho perdonata.
Il mio sguardo si blocca quando vedo entrare dalla porta principale l’avvocato Gittoni. Mi nascondo istintivamente dietro Pietro per avere ancora un attimo. Stringo i denti, sento il mio essere un umano animale. Come un vibrato che dalle viscere della mia rabbia vorrebbero incendiare quella sala di tutte le mie lacrime liberandole in un grido singhiozzante e disperato che i denti cercano di stringere ancora. Perché è qui?
Dio stammi accanto e se sei in questa stanza chiudi gli occhi ti prego perché troppo è il dolore che ti abbiamo fatto patire. Abbiamo ucciso e continuiamo a uccidere dei tuoi figli, lo facciamo sotto i tuoi occhi e poi li ricordiamo, non guardare il sangue nauseante e vivido in questa stanza. Noi ti ringraziamo per qualcosa che va bene e ti malediciamo Dio! Si, noi ti malediciamo, commettendo il più grosso dei peccati noi ti malediciamo quando il male vince e la colpa per noi è tua.
Ma a te Papà santo chi chiede scusa?
Io cammino come sasso morente in un fiume disperso fatto di lacrime e sangue e, come parte di questo popolo che ti umilia io ti chiedo perdono.
Le voci al microfono ancora non le percepisco, ma torno subito alla realtà quando vedo che l’avvocato Gittoni sta parlando con lui. Ritrovo il mio coraggio e ricordo perché sono qui.
Smetto di tremare e mi scopro dalla copertura di Pietro
Il suo sguardo mi sta cercando. Il microfono si accende… la luce rossa dà la libertà di parola ed eccolo colui che siede.
Lei è qui. La sento. Inizia a baciare la mia pelle. Ne sento quasi l’odore, sebbene lei non esista nella materia.
Lei è qui ed io per la prima volta la vedo negli occhi umani che la rappresentano.
Eccola.
È lì.
La sento nelle sue parole.
Mi manca l’aria.
Sento il soffitto che mi soffoca nell’attimo stesso in cui mi accorgo di avere vissuto accanto a Lei per tutto questo tempo senza neanche rendermene conto, cresciuta e nutrita da Lei.
Io sono stata colei che Lei ha protetto.
Lei è un’amante gentile che si presenta quando hai bisogno di qualcosa di diverso arrivando a farti capire che Lei sia una cosa giusta.
Ma non per me.
E’ davanti ai miei occhi.
Si alza in piedi.
Non ho paura di guardarla.
Si è accorto che sono lì.
Una piccola esitazione e la sua voce ha una breve flessione. Mi guarda dritto negli occhi. Non sta guardando colei che credeva di vedere, oggi sta vedendo Vittoria, per la prima volta. Me ne accorgo. Se ne accorge..
Lei è qui, lo sento parlare è lui, in fondo alla sala, il più importante di tutti, la macchia di morte più brutta che potesse incrociare la mia vita: mio padre.
Due custodi mi guardano ed escono dalla sala, suppongo che stiano venendo verso di me.
“Andiamo” faccio segnale a Pietro che è ora di andare e esco il più velocemente possibile.
“Mi spiegherai prima o poi giusto?”
“Pietro non mi importa cosa mi succederà ma io devo solo gridare”
In piazza la manifestazione è al culmine. Mi fermo e srotolo il mio lenzuolo.
“Tieni” dico a Pietro che mi aiuta a srotolare
“Vittoria, ma che c’è scritto?”
Sorrido, mi sento libera. Non mi importa di morire, non importa di che ne sarà della mia vita, l’importante è solo che tutti sappiano la verità.
La gente resta a guardarmi sconvolta.
Ed eccola la mia confessione lì nero su bianco con nomi cognomi e date lì alla portata di tutto. La fermo in una parte della fontana delle vergogne e la srotolo tutta intorno. La mia scrittura, quella di Giovanni, la nostra verità.

Io confesso, Mahias è qui in questo palazzo.
Io confesso che una delle sue braccia sanguinarie siede sulla poltrona più grande, siede e governa in giacca e cravatta.
Io confesso che l’assassinio di Paolo Gioverni è stato deciso anche fra queste pareti
Io Vittoria Maccarella confesso che la mafia vive e si nutre e soccombe solo se qualcuno ha il coraggio di chiamarla per nome.
Ed io sono qui per darle il suo nome.
Fernando Maccarella, mio padre.
Sto per muovermi quando lo vedo: il Piombo rosso è lì e si fa strada fa la gente camminando dall’altro lato della strada. Se loro mi hanno raggiunta fino a qui questo significa che hanno scoperto tutto o che non si sono fidati di lui o che Giovanni…

Uno dei ragazzi della manifestazione si guarda con gli altri ma nessuno può avere la percezione del rumore di uno sparo.
E’ silenzioso, muto, delicato, ma penetra il mio corpo e spenta, muta e pallida mi ripiego sulle mie ginocchia.
Il mio sorriso non muore, perché il mio compito è svolto, io potrò fermare il mio respiro, ma le mie parole sono state scritte e una sola persona che oltre me le leggerà le renderà eterne.
“Vittoriaaa” sento gridare da Pietro disperatamente mentre mi accascio in ginocchio.
Il ragazzo in fondo alla strada ha letto, quello accanto a lui anche, la ragazza con la sciarpa rossa è insieme a loro e così quella dietro e quella dopo ancora.

Respiro un canto nuovo in questa città perduta nella sua storia.
Fra il rosso del loro sangue si è accesa la tua luce.
Non importa che il sole tramonti stanotte,
l’imperituro sole della verità, sorto dalle tua labbra non morrà

Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale. Nomi e dettagli sono frutto della fantasia

Shiri Il Sandalo Spinato – Poesia Il Giorno della Memoria

Barbed_wire_B&W

Un’origine maledetta,
che mi porta alla morte.
Uno stemma dentro al sangue,
che colore non ha più.

Questo è il mondo, cara gente
Questo è il mondo ed il suo niente.

Mente matta, sconcertante,
malattia per tanta gente.

Sei colore nella terra,
o colore nel tuo sangue?
Sei di gusto non accetto?
Sei ramingo per la terra?
Non fermarti in questa tenda,
perché posto qui non c’è.
Non cercare amore nuovo,
perché retto tu non sei.

Non gettare quella stella,
perché pelle essa non è,
nella macchia di una mente,
che la trova dentro te.

Legherai quella stella
Alla stoffa tua di vita.
Legherai quelle cifre
Come veste di una cipria,
che colore non ti dà.

Alla fine di ogni cosa,
pensi ancora
che un umano tu sarai?

Non è uomo ciò che grida
nella mente che non parla.

Non è uomo chi, qui, scalzo,
cerca l’anima di sé,
fra le grate assassine,
di un terreno per concime

Quel colore ha asciugato
la tristezza del respiro.
Quel colore ti ha segnato,
macchia e inferno nel tuo destino.

Non è uomo chi ha deciso.
Non è uomo chi ha compiuto.
Non è uomo chi ha taciuto.
Non è uomo chi è scappato.

E’ la morte la medaglia che io cerco,
per chiamare nella storia,
uomo degno chi è esistito?

Io non cerco premi o santi,
per lavare le tue colpe,
ma una nuova nave in porto
con il vento suo nel cuore.

Una nave che contenga
Quelle lacrime versate;
che contenga tutti i corpi,
che da qui sono passati;
Che lasciasse quel suo porto,
per disperdersi nel mare,
perché Dio e il suo timore,
non arrivano a tal male.

Perché zingaro, ebreo,
o diverso in ogni modo,
chi può dire nella vita,
di volerti uguale a sé?

E l’amore di una donna,
con la stella dentro al cuore,
lungo il nero di una chioma,
mai diversa nel colore.

Lui, diverso, senza macchia,
senza stelle, senza amore,
col diritto suo di vivere
senza stelle nel suo cuore

E i suoi occhi nella folla,
come un quadro da evitare
E i suoi occhi nella folla,
sono luce da preservare.

Una corsa disperata,
gesto unico d’amore.

Una donna allontanata
Dalla fonte sua d’amore.

Corri forte verso il vento,
perché l’uomo in questa terra
è il solo tuo tormento.

Fuggi via disperata,
nella strada illuminata.

“Lor Signori, sono qui
Ecco offro la mia carne
come stella che non ha,
ancor chiusa in quel petto,
che ha portato via con sé.

 “Sono ebreo, Lor Signori,
e prendetemi con voi.
Son la macchi di un peccato,
che peccato poi non è.”

Un cammino, una marcia,
e l’arrivo fino a lì,
dove il sole ha il colore
della terra che non c’è.
Dove cifra è la mia vita,
che cammina accanto a me,
salutando disperata,
quel suo pazzo proprietario,
che ha segnato la sua fine
per l’amore chiuso in sé.

Laverai le tue colpe,
col sapone di una vita,
che purezza non darà,
perché l’anima ha lasciato.

Soffocato morirai,
dalla cenere della vita,
che con l’ascia tua hai spezzato.

Morirai nel calore dell’Inferno,
di cui sei stato usciere,
accorgendoti che il tormento
ha dimora proprio lì,
oltre al cielo che ripudiasti,
oltre cielo che non guardasti,
oltre al cielo vigile custode
di una giustizia che non ha fine:
la salvezza di un eterno divenire.

Ma il tormento di un novello pentimento,
il suo posto non troverà,
perché fuoco è il tuo destino,
che la pace non avrà.

Maledetto peccatore,
quella vita che bruciasti,
in mille fuochi ti ritroverà.

Ma il mio cuore non ha pace
In questa terra,
perché tu sei ancora qui.

 Non sia mai,
che il ricordo fermi il monito di te.
Perché ancora quell’uomo gira
Intorno a questa terra.

Ancora quella mente nasce e cresce
In un odio disperato,
in un grido assassino.

Il ricordo non è dunque
sol tormento del passato
e salvezza del presente,
ma minaccia incombente,
di un futuro sconosciuto,
che nasconde chiuso in sé,
tutto ciò che è già successo,
e che ancora può aver vita.

 Mille lacrime di cristallo,
Mille spine maledette,
di una casa senza età.

E la mente sua che muore,
nella fiamma di una vita
che quegli occhi non possono accettare.

Un profumo delicato,
e le spine di quel filo
che ritornano alla vita,
liberando la sua anima.

Una donna e il suo dolore,
il suo uomo e il suo tormento
e la luce di due occhi
che si aprono alla vita

FotoRacconti – Inizia una nuova avventura

1011252_10152263025028729_682835708_nSono passati ormai tanti anni da quelle prime foto che ritraevano i meravigliosi giardini di Villa Borghese, cullati dalla storia immortale della città Eterna. Erano gli anni in cui una rosa iniziava a essere immortalata dal mondo digitale a braccetto ancora con il rullino, gli anni in cui i giovani innamorati di tutto il mondo attraversavano Ponte Milvio per dichiararsi amore eterno attaccando un lucchetto con le loro iniziali. Gli anni in cui i sognatori erano prepotenti nel non arrendersi. E’ con queste prime foto che ho conosciuto il Fotografo Matteo Nardone, che è riuscito a trasformare una passione in una professione, lottando ogni giorno perchè i sogni vincessero e arrendendosi a quello che il cuore voleva, al di sopra di tutto il resto: rendere immortale ciò che già era immortale, cogliendone però un’essenza diversa, nuova, una prospettiva inusuale, distinguendo il suo obiettivo da tutti gli altri. Oggi le sue fotografie non dimenticano la bellezza dei fiori, delle strade, della vita di tutti i giorni da cui sono nate, ma hanno fatto un salto di qualità, abbracciando l’arte, il mondo teatrale, il cinema, gli eventi, diventando il pulito mestiere dell’arte. E’ da queste foto che mi è venuta l’idea di sposare le nostre passioni, la sua per la fotografia e la mia per la scrittura, dando vita a una nuova sezione del sito: i FotoRacconti. Sarà così che partendo da alcune delle sue fotografie, cercherò di ricamare a punta d’inchiostro un racconto immaginario, così che anche la fotografia trovi una piccola favola che l’attende al di là dell’istante da cui è nata per consegnarsi definitivamente ad una penna che non vuole altro se non rendergli omaggio

foto di Matteo Nardone

Felicor ed Edelweiss – Una storia d’amore

Senza il sole del mattino è difficile respirare ancora.

Edelweiss sedeva ripiegata sul suo stelo, in un’immensa solitudine, che era solo sua. Non si vedeva il sole da molti giorni ormai e le notti erano così fredde che dentro, la vita non scorreva più. C’erano cieli che non si vedevano e lacrime che non arrivavano. Tutto  fermo, bloccato, come un ritratto di una natura che non è morta, nè viva… Perchè il nulla non è morte nè vita.

Leontopodium_alpinum_Szarotka_alpejska_01Edelweiss trascorreva così le sue lunghe giornate.. fra lacrime che non poteva versare. I suoi petali erano quasi morti, spezzati dal secco di un freddo che non aveva colore. I germogli accanto a lei, che un tempo le avevano dato quel vivido colore bianco, di cui tutto il mondo era invidioso, beh, quei germogli non c’erano già più. Adesso restava solo il nucleo e i suoi pochi petali.

Il freddo era impossibile da combattere e se avesse pianto almeno sarebbe stato qualcosa, almeno avrebbe reso umide quelle tese mani vuote. Ma a lei non era concesso di piangere e il re delle montagne non avrebbe permesso che un piccolo fiore infrangesse le regole sacre.

Così il pianto diventava pensiero e a volte diluvio da non mostrare a nessuno. Edelweiss aveva tirato su il suo piccolo peso, ripiegato su quello stelo, per guardare ancora in alto. Niente… nessuna nube di giorno, nessuna stella di notte…

Eppure le stelle lei le aveva viste.

Non erano troppo lontane quelle notti trascorse con il suo amico Flo. Parlare con lui era bello, diverso, come fare parte di un sogno. E le notti erano trascorse così, nascondendosi da un mondo per il quale loro insieme erano ancora un segreto. Lui arrivava col calare del giorno, stendendosi fra i suoi germogli. Aveva occhi grandi che, insieme a lei, guardavano le stelle…e quante ce n’erano! Milioni! Lui sembrava conoscerle tutte… e lei lo stava ad ascoltare, attendendo che arrivasse il giorno in cui anche lei gi avrebbe parlato di sè.

Ma quel giorno non arrivò mai e con la fine dell’inverno Flo era partito per montagne lontane lasciandola per sempre. Avrebbe potuto raccoglierla e portarla con sè, ma non lo fece e se ne andò senza dire nulla.

Beh, in quell’occasione Edelweiss pianse senza riuscire a trattenere il suo dolore.

Il re dei re scoprì il motivo del suo pianto. Voci della foresta gli sussurrarono ciò che era stato taciuto e il re venne a sapere che Edelweiss aveva trascorso quella parte di vita con Flo, la creatura che viveva di notte, colui che fiore non era e tutto questo era successo senza che nessuno dei due avesse chiesto il consenso del grande consiglio.

Non era permesso infatti che specie diverse entrassero in contatto in quella parte del mondo e la colpa di Edelweiss fu immediata, tanto quanto dolorosa.

Tra montagne che toccano il cielo, verrai condotta e le tue radici dovranno cercare lì, ciò che in questo luogo ti ha dato vita. Fra montagne inesplorate piegherai il tuo stelo ricercando nutrimento. Pioggia, vento, fulmini e tempeste. Avrai il sole così vicino da sentirti bruciare e freddo tagliente, da non poterti sollevare. Crescerai lontano dai tuoi simili  per scoprire che senza essi non potrai avere compagnia. Scoprirai che solo chi ti è simile può comprendere la tua vita e capirai che in colori che non sono i tuoi non puoi trovare felicità.

Arrivò presto il giorno  per andar via ed Edelweiss fu condotta fra montagne, che sembravano davvero toccare il cielo. Nell’addio  ai suoi cari promise a se stessa che mai più avrebbe pianto, che mai più il suo cuore avrebbe conosciuto debolezze.

La lasciarono lì, in una stagione che sembrava fosse davvero infuocata. I suoi petali sanguinarono i primi giorni, mentre il sole, testardo, si ostinava a dimorare in quel cielo. Giorni interi furono vuoti come onde di un mare che non esiste. Il re aveva ragione, tutto intorno a lei sembrava l’esatto disegno di ciò che le era stato preannunciato. Allora anche tutto il resto era vero? Quindi non c’era amicizia, nè amore, nè calore in specie diverse e l’unico modo per vivere era dunque quello di trovare fra i suoi simili ciò che il suo cuore cercava.

Il freddo era troppo forte e stavolta Edelweiss sentiva dentro al cuore che non avrebbe potuto respirare ancora per molto. Sentiva prepotente il bisogno di piangere, di piangere per l’ultima volta, ma non avrebbe potuto, doveva dimostrare a se stessa che  poteva tener fede a una promessa.

Ma perchè ancora quel bisogno di piangere? A che pro, se nessuno l’avrebbe ascoltata, se nessuno le sarebbe venuto incontro? Perchè tenere fede a qualcosa che fra poco sarebbe morto con lei?

Si guardò per un attimo, le ultime foglie diventarono calde, bollenti, come bruciate. Ma può il freddo bruciare in quel modo? Avrebbe dovuto raggiungere quei petali con le sue labbra e ridargli conforto, ma non poteva …le forze non c’erano più.

Sembrava che tutto stesse finendo, quando, ad un tratto, una goccia bagnò un petalo.

Edelweiss si sentì come scoperta, nuda, dinnanzi ad un ospite inatteso. Cercò di spostarsi, di guardarsi intorno, per scoprire qualcuno. Sentiva una presenza nuova, ma non c’erano ombre nè foglie attorno a lei, unica ospite bianca di quella fredda montagna.

Improvvisamente un sussurro arrivò inatteso.

“Nella pioggia rivivrai, dentro al sole crescerai…”

Paura, improvvisa, inattesa.

Non c’era nessuno accanto a lei, eppure qualcuno le stava parlando di speranza. Era una voce percepita dal cuore più che dal suo piccolo corpicino. Una voce che  faceva battere il suo cuore ad un ritmo sconosciuto.

“Ma chi sei? Chi è che mi sta parlando adesso?”

Nessun verbo ebbe l’ardire di chiamarsi risposta, ma una goccia soltanto, prepotente,  bagnò i suoi petali.

Che conforto! Che dolce conforto a tutto quel dolore!

Edelweiss capì che a parlarle era la pioggia. Sentì per la prima volta di non essere sola. Nessuna nuova domanda ed ecco ancora la risposta.

“Ho seguito il tuo dolore, dolce piccolo livido fiore. Ti ho seguita dalla valle dei tuoi cari, dai sorrisi dei tuoi anni, dalle lacrime nascoste che mostravi alle tue notti. Ho seguito la tua voce, nel  tuo muto ingenuo pianto. Ho rivisto quelle stelle, la tua luce e la sua pelle. Il coraggio di tentare, nella voglia di un amore…il coraggio di cercare, nella notte, tutto quanta la tua gioia. Ti ho veduta rinunciare, calpestata da un dolore che ha distrutto le tue vesti e ti ho vista… immaginata, ricercata, mai perduta….e toccata.. ogni volta che dal cielo, ricadevo su di te. Ma tu qui non mi hai più visto, se non forte, turbinante, impazzito di dolore. Dunque adesso tu sei qui, e non posso lasciarti andare..”

Le piccole lacrime di pioggia diventavano sempre più  frequenti e quella pioggia finalmente aveva avuto inizio. Edelweiss ascoltava quella voce che le riempiva il cuore. Non diceva una parola, ferma immobile sotto il peso delicato di quella pioggia che sembrava portare un calore nuovo in tanto freddo….quella pioggia che le cantava dolcemente una verità che il suo cuore non immaginava.

“Tu sei pioggia, non sei un fiore come me..”

“Sono pioggia, la tua pioggia..”

“Ma non posso ascoltare la tua voce, c’è una promessa che io ho fatto..”

“Chi, nel vento, ti punisce, insegnandoti che i tuoi occhi non potranno mai conoscere altra luce se non quella che già vedi, non è maestro da seguire. Pioggia e fiore, si è vero, non son usi d’abitudine….Ma la vita io ti do, avvolgendo su te questa notte tutta nuova”

Protezione, sicurezza, abitudine di vita. Fermarlo? Perchè mai? Allontanare questo cuore che ricopre tutto quanto il tuo dolore? Perchè mai?

Tanto cuore e calore in qualcosa che non è un fiore…e trovarlo proprio adesso, che la morte era vicina. Tutto il bene dentro al cuore in un solo minuto d’amore, era questa la risposta e non c’era altra domanda

“Sarei morta se tu adesso non fossi stato qui. E’ un mondo che non è mio. Ripiantata sotto un sole troppo caldo da sopportare o in un freddo troppo forte per sopravvivere”

La pioggia continuava a poggiarsi su di lei, mentre il suo sfogo continuava.

“Allontanata da tutti, ho vissuto sola qui, senza sapere che tu seguissi la mia vita. Vorrei piangere adesso. Tu lo sai?  Vorrei farlo…”

 “Piangi adesso, come piango io per te…come sto piangendo adesso..”

“E se muoio, ripunita per un pianto che non posso?”

“Tratterrò le tue lacrime, nascondendole fra le mie. Nessun occhio vedrà mai ciò che insieme diventiamo. E nessuno oserà mai sfidarlo, tanto forte sarà il disegno tuo su me”

Edelweiss cominciò a piangere.. piangere e piangere e piangere…

Sentiva come se in quel momento potesse riuscire a fare tutto, come se il mondo intero su di lei non potesse alcun male  e la morte nella vita non avrebbe avuto seguito e la vita sulla morte sarebbe stata la regina.

Pianto forte disperato… ripartito dalla gioia di una calore nel ricordo di quel freddo e di tanto tanto dolore.

Pioggia e lacrime inscindibili… e non c’era sole, nè tempesta, niente che avrebbe potuto separare quell’unione che si stava consumando lì, fra montagne senza nome.

“Il tuo nome?” chiese improvvisamente Edelweiss dal suo pianto.. “Chi è colui che ridà a me la vita?”

“Sono Felicor nei cieli, fra le rondini e gli uccelli. Sono pioggia nella terra, fra dolori, pianti e vita. Sono amore nei tuoi petali, che bramavo con ardore”

“Caro Felicor piango ancora qui con te, ma non mi sento sola. Come farò a sopravvivere ancora qui, non è casa mia… non fra queste montagne, eppure adesso non voglio andare via da te…”

“Dalla pioggia di un amore nascerà il tuo calore, in una folta coperta bianca coprirai le tue vesti. Tornerai al tuo candore, in un bianco mai visto. Sarà un velo su di te, proteggendoti dal vento, riscaldandoti nel freddo, rinfrescandoti nel sole la tua luce sarà chiara come dieci, venti aurore.. e sarai tu qui, il sole…”

Felicor continuava a parlare, mentre il prodigio nasceva, sui petali di Edelweiss: una folta, morbida coperta bianca andava ricoprendo i suoi petali. Calore, fresco, benessere, profumo.. Una protezione che la stava prendendo per sempre.

Un dono d’amore, un regalo di vita, una luce indescrivibile.

Edelweiss guardò in alto, unendosi in un abbraccio senza tempo a Felicor e al loro amore.

“Solitaria bellezza non resterai, dell’amore nostro ricopriremo questo suolo e di questo bianco amore, narreranno in ogni dove..”.

 *    *    *

 I  folti fiori bianchi rendevano quelle montagne uno spettacolo della natura. Folti, belli, germoglianti come  spruzzi della luce del cielo. Fra loro c’era il più grande il più bello, il più forte: Edelweiss. Era guarita dalla sua morte e nell’amore aveva trovato la forza, per illuminare il mondo. Tendeva verso l’alto, fissa contro il cielo, aspettando la sua pioggia, col sorriso suo più grande. Quando Felicor partiva, per bagnare altri cieli, lei attendeva con amore che tornasse il suo sposo. Ogni volta lui tornava e trainato da un vento che mutava nel cielo il suo colore, ricopriva i suoi figli come il più bel bacio d’amore. Alla fine si posava su di lei, nella notte di un amore, perché nel mondo ricantasse in ogni dove questo dolce forte amore che era nato fra la pioggia e quel fiore.